l'Autobus di una volta
10 La città, sede di una attività frenetica, sembrava ogni giorno meno adeguata a suggerire contenuti diversi dal lavoro. La crescita industriale e le nuove opportunità davano una risposta positiva alle esigenze di occupazione, soprattutto aumentava le aspettative di ognuno; mentre i telai andavano a insediarsi nei fienili delle case coloniche, l’intera famiglia vi si dedicava con dei ritmi incredibili; il reddito di quel telaio era talmente alto da consentire una inusitata disponibilità di denaro, unico simbolo di una conquistata ascesa sociale. La famiglia operaia accedeva al tenore di vita della piccola borghesia, viveva una mobilità verticale che finiva per appannare gli stessi conflitti di classe. Semplicità delle esigenze e diuturno impegno lavorativo lasciavano poco spazio a consumi consapevoli e qualificati. L’abitazione era in qualche modo l’emblema di questa nuova disponibilità economica non ancora sufficientemente interiorizzata. Nonostante il mobilio alla moda e la pretenziosità degli arredi, parte della casa era luogo di lavoro: il tavolo da rammendo, il piccolo garzo, la fastidiosa “taglia e cuci” che sostituì il silenzioso agucchiare, erano per i pratesi elementi ormai naturali di un assurdo arredo familiare. Far cannelli era il rito di iniziazione del fanciullo alla vita adulta, l’accesso alle macchine il segno della sua avvenuta emancipazione. In tutto ciò, e per un paio di decenni, con la crescita demografica e industriale, emergevano crescenti i problemi del traffico, principalmente indotti dal trasporto dei semi lavorati in continuo andirivieni tra laboratori e magazzini sparsi senza altra logica che l’uso necessario di ogni spazio disponibile. Di qui, dopo l’iniziale adattamento di residuati bellici, mentre si assisteva alla graduale introduzione di autocarri e camioncini più efficienti, anche i meno attenti cominciavano a percepire il peso di una crescita urbanistica priva di regole. Inizialmente sembrava quasi che anche il problema del trasporto pubblico fosse secondario: la bicicletta anzitutto, ma anche la Vespa e la Lambretta sembravano i mezzi abitudinari e insostituibili per recarsi al lavoro e svolgere ogni incombenza familiare. La CAP comunque seppe dare subito qualche segnale positivo nell’ambito del trasporto urbano; ancor di più seppe dare importanti risposte alle necessità di collegamento tra Prato e i paesi circostanti da cui arrivava una consistente quantità di manodopera. Non a caso si aprì subito un certo contenzioso con la Lazzi, la VETA (chi non ricorda questi nomi?) e con la SITA che vedeva aggredita la sua egemonia sulla tratta Borgo San Lorenzo – Barberino – Prato. Dunque il “bus” della CAP divenne rapidamente un elemento del paesaggio cittadino, a volte ingombrante come quando i suoi capolinea erano in piazza del Duomo, certamente utile e spesso insostituibile, come dimostra la complessa storia dei suoi rapporti con l’amministrazione comunale. Quando iniziò le sue attività, il principale segno fu il Lancia 3 RO, celebre perché fu il primo autobus acquistato dalla Cooperativa. Bellissimo per i pratesi, come bella era quella macchina piena di giovani donne che nel 1947 le condusse in gita a Livorno. In quei decenni cominciò la storia della CAP e questa collezione di foto ce ne propone la lettura. È storia della Cooperativa e storia di Prato che si avvale della fotografia come mezzo di memorizzazione esterna alla nostra mente. Certo perché questa serie di immagini è come una trascrizione di fatti e di eventi, registrazione di movimenti molecolari che in modo più o meno percettibile trasformano la realtà. Questa è la chiave di lettura che mi permetto di suggerire al lettore. Una lettura che sappia coniugare la breve storia
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